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02 mag
Pasquale Amato _ Storia Globale _ Visualizzazioni: 23088

Pasquale Amato - EUROPA. IL GIGANTE D’ARGILLA TRA STORIA, UTOPIA E REALTÀ

Pasquale Amato - EUROPA. IL GIGANTE D’ARGILLA TRA STORIA, UTOPIA E REALTÀ

  Cosa ha suscitato la grande energia dell’Europa nel corso di tre millenni, da quando i primi autori greci usarono per identificarla geograficamente il nome della mitica figlia del re fenicio Agènore rapita da Zeus e portata a Creta dove divenne la madre di Minosse? Un fattore decisivo è stato senza dubbio l’intreccio complesso di elementi di unità e di diversità che ne hanno caratterizzato la suggestiva e stimolante storia. Storia che offre una solida base di avvio per affrontare i differenti versanti della tortuosa risalita verso l’unificazione politica dell’Europa.

    Il filo rosso di alcune lunghe durate lega difatti – in maniera sottile ma lucidissima – lo straordinario percorso dell’Europa al di là degli eccessi sia negativi che positivi che l’hanno caratterizzata. Eccessi, lacerazioni, conflitti (tra cui le ultime due guerre mondiali, entrambe generate dalle rivalità tra gli Stati europei) che non hanno impedito ad un grande europeo d’America come Jorge Luis Borges di affermare che l’Occidente e buona parte dell’Oriente sono oggi “una proiezione” della civiltà nata sulle rive del Mediterraneo.

   Il versante delle culture regionali e minoritarie è frastagliato e scosceso per gli innumerevoli rivoli che hanno caratterizzato le “diversità” dell’Europa. Diversità che hanno senza dubbio contribuito a rendere l’eredità spirituale complessa e talvolta contraddittoria. Cionondimeno hanno sviluppato caratteri di unità incredibilmente robusti.

  

  1. LE “ONDE DI LUNGA DURATA”

   L’Europa – al contrario di quanto prevale nell’immaginario collettivo – non è un Continente. È in verità un vasto promontorio, l’ultima appendice del continente asiatico, con differenze notevoli nel territorio e nel clima, dal Circolo Polare Artico alle soglie dell’Africa. Per millenni tutti i popoli che con frequenti flussi migratori sono venuti dall’Est verso Ovest, si sono trovati alla fine della corsa e sono stati costretti a  inventarsi modi e sistemi per convivere con coloro che  si erano insediati in epoche precedenti.

   Il popolamento dell’Europa è avvenuto quindi per stratificazioni  successive – con innesti periodici di nuove energie in culture già consolidate, intrecci di esperienze, etnie e tradizioni diverse – determinando un meticciato che ha avuto nel suo insieme risvolti positivi.

   Infatti la nostra storia è stata, sia sotto l’aspetto politico che dal punto di vista etnico, linguistico e culturale, un perenne intreccio delle vicende di tante singole entità etniche e territoriali in conflitto tra di loro, ma anche impegnate in scambi artistici e culturali, oltre che commerciali. Si è trattato di un incontro-scontro che ha determinato processi autonomi di sviluppo di realtà nazionali e locali diverse.

    Nell’ambito di tale continuo rimescolamento si sono affermate nelle varie epoche alcune culture egemoni da cui hanno tratto il loro moto le onde di lunga durata della storia europea. Ciò non ha comunque comportato la morte delle culture minoritarie, le quali hanno continuato il loro corso sommerse nelle stesse viscere delle culture dominanti.

    Alle onde lunghe si sono via via affiancate nel corso dei secoli le onde di breve durata, che hanno aiutato il cuore dell’albero a ramificarsi e a crescere con la nuova linfa di idee, di apporti culturali, artistici e scientifici (l’Umanesimo, il Rinascimento, la Riforma, l’Illuminismo e così via).

   Per quanto concerne le onde di lunga durata della civiltà europea, si può condividere in larga misura la tesi di Fernand Braudel, che ne ha indicate essenzialmente tre: il mondo ellenico, quello romano ed il Cristianesimo.

    Ai margini meridionali dell’Europa, sulle rive assolate del Mediterraneo, all’alba della storia gli Elleni, pur costituendo una piccola entità, seppero mettere a frutto e portare a sintesi le esperienze delle civiltà precedenti del vicino Oriente e quella minoica e micenea. Costituirono così uno straordinario laboratorio culturale che ci ha lasciato una eredità di abbagliante valore.

     La civiltà ellenica – formata da un mosaico di città-Stato (le Pòleis) indipendenti  che dall’Ellade si estese verso Occidente sino a Marsiglia e alle coste della Spagna (Máinake-Málaga) e verso l’oriente sino alle foci del Don nel Mar Nero (Tanais) – ebbe il merito di dare un’anima agli europei, lasciando loro alcune eredità fondamentali: l’aspirazione alla libertà e alle libertà; l’amore per la bellezza, l’armonia e l’arte; l’invenzione della filosofia ed il conseguente primato della ragione nella ricerca delle origini del mondo e dell’uomo, nell’indagine scientifica e matematica, nell’introspezione storica e nell’osservazione dei fenomeni dell’universo; l’invenzione della politica e del suo strumento – il partito- e delle arti annesse della retorica e della dialettica; lo spirito di Ulisse, ossia il culto della conoscenza, la voglia della scoperta, il piacere della ricerca.

 

    I romani, anch’essi all’origine un piccolo popolo organizzato politicamente in una città–stato (dapprima retta da una monarchia e poi da un sistema repubblicano), riuscirono a compiere un miracolo rimasto sinora senza successori: l’unificazione di tutti i paesi che si affacciano sulle rive del Mediterraneo e di una buona parte dell’Europa (sino al Reno e al Danubio nel continente ed al Vallo di Adriano in Scozia) sotto un solo potere politico, una sola lingua ed una cultura che era la sintesi delle molteplici e varie esperienze dell’area. Una cultura permeata comunque dall’influenza ellenica nella versione ellenistica (la cultura cosmopolita fiorita nelle città fondate o conquistate da Alessandro Magno, che aveva fuso la civiltà ellenica con le grandi civiltà dell’antico Oriente).

 

    Nella stessa area dell’Impero Romano – assorbendone notevoli influssi specie sotto gli aspetti istituzionali e organizzativi – nacque e si estese, sino a divenirne la religione di Stato, il Cristianesimo.

   L’ispiratore principale di questa affermazione fu Paolo di Tarso, greco per lingua e cultura e cittadino romano. Il suo ingresso nel gruppo dei discepoli (dopo averli dapprima perseguitati e poi essersi convertito con la famosa illuminazione sulla “via di Damasco”) si palesò determinante grazie ad un ragionamento realistico: se Pietro e gli altri discepoli intendevano diffondere la parola e l’insegnamento del loro Maestro dovevano uscire dal Regno di Israele, dove erano e sarebbero stati sempre una setta minoritaria e perseguitata dal solido primato dell'ebraismo.

   Il Cristianesimo doveva uscire dal recinto di Israele per realizzare l'insegnamento di Gesù di una religione di valore universale. Per questo motivo la sede centrale doveva essere Roma, capitale di un Impero vasto e diffuso su tutte le sponde del Mediterraneo, popolato da genti diverse e percorso da culture variegate, dove il messaggio universale del Cristianesimo avrebbe potuto irradiarsi in ogni direzione. Ne conseguì l’invito che rivolse a Pietro di trasferirsi a Roma, eleggendola come sede centrale della Chiesa Cristiana. 

  Grazie a questa intuizione di Paolo di Tarso il Cristianesimo, sebbene sottoposto a frequenti persecuzioni, si diffuse sempre più da Roma sino alle estreme propaggini del suo immenso Impero. E dopo tre secoli venne dapprima riconosciuto nel 325 dC dall’Imperatore Costantino nel Concilio di Nicea e divenne poi definitivamente religione ufficiale di Stato con l’Editto dell’Imperatore Teodosio nel 380 dC. 

  Dopo quel riconoscimento istituzionale l’espansione divenne inarrestabile, costituendo il substrato religioso comune dell’Impero. E assicurò all’eredità greco-latina la continuità dopo la caduta nel 476 dC dell’Impero Romano d’Occidente e durante il millennio di sopravvivenza dell’Impero d’Oriente sino alla conquista dei Turchi Ottomani nel 1454. Ne scaturì quel mosaico ricchissimo e variatissimo di chiese, cappelle, conventi, abbazie, cattedrali, campanili che nel Medioevo divennero elementi di riferimento basilari della vita sociale e culturale di comunità piccole e grandi ed elementi caratterizzanti insostituibili del paesaggio sia rurale che urbano dell’Europa.

   Quanto sia stato profondo e solido questo legame tra il mondo greco-latino e il Cristianesimo anche dopo lo scisma d’Oriente che diede vita alla Chiesa Ortodossa (risultato di un progressivo distanziamento che si concluse nel 1054, quando Papa Leone IX lanciò la scomunica al Patriarca di Bisanzio Michele I Celulario e quest'ultimo rispose con un proprio anatema) lo si può rilevare dalla cesura provocata nel continente dalla Riforma Protestante nel XVI secolo d. C. : il mondo cattolico e quello protestante (escluse alcune eccezioni con énclaves originate da particolari problematiche locali come la Polonia e l’Irlanda da una parte o il Regno d’Inghilterra e il Cantone di Ginevra dall’altra) vennero attraversati dalla stessa frontiera dell’antico Impero Romano.

    In sostanza, la rottura della Riforma venne compiuta da quella parte dell’Europa più giovane, meno connessa ad una tradizione di stretto rapporto con Roma. Mentre l’Europa dell’ex-Impero dei Cesari non se la sentì di rompere il cordone ombelicale che la legava da oltre quindici secoli a Roma.

 

  1. L’EUROPA DELLE DIVERSITÀ

   Con la scissione avvenuta nel periodo della Riforma si spezzò quel processo unificante tra l’Europa del nord e quella del Sud che aveva caratterizzato il Medioevo e l’avvio dell’età moderna con la fioritura dell’Umanesimo e lo splendore del Rinascimento.

  Nonostante il notevole frazionamento politico seguito al disfacimento dell’impero carolingio, nell’era feudale si realizzò difatti un’eccezionale convergenza di valori e di cultura.

   Marc Bloch ha parlato di una cristianità unitaria e di una civiltà della cavalleria, del trovatore, dell’amore cortese. Nonostante contese, rivolte, conflitti locali, i valori morali, religiosi e culturali del Medioevo – come le regole di guerra, dell’amore, della vita e della morte – erano stati gli stessi ovunque. E le Crociate avevano costituito veri e propri movimenti collettivi, coinvolgendo le numerosissime “piccole patrie” feudali attorno ad un grande progetto comune.

  Particolarmente ricco di suggestioni - e di significati anche attuali per il rapporto tra le popolazioni che si affacciano sul Mediterraneo - fu il lungo periodo di regno di Federico II di Svevia, che ebbe il merito d’interpretare al più alto livello il meticciamento della Sicilia e del Sud d’Italia. Un intreccio complesso e difficile sulla scia della dinamica dell’incontro-scontro tra popoli diversi che vide fiorire un nuovo capitolo tra gli  ex-occupanti islamici e i Normanni, Vichinghi dell’estremo Nord dell’Europa, provenienti dalla penisola francese che da essi aveva preso il nome di Normandia.

  Anche la successiva affermazione delle città, con le loro libertà - intese come privilegi di gruppi, delle corporazioni artigiane, dei primi mercanti imprenditori - , pur avendo accentuato il frazionamento, aveva contribuito a rafforzare i caratteri comuni dell’intero Continente.

   Il pellegrino, il mercante, l’intellettuale, i quali percorrevano in lungo e in largo l’Europa, non si sentivano a disagio a Parigi o a Lubecca, a Londra o a Bruges e Colonia, a Burgos o a Milano, Venezia e Firenze, Napoli. Il Mediterraneo aveva continuato ad essere il fulcro di scambi continui commerciali, umani, culturali, in un vortice  in cui le quattro Repubbliche Marinare italiane di Amalfi, Genova, Pisa e Venezia erano le punte di diamante e gli anelli di congiunzione tra Oriente e Occidente.

   Non fu quindi un caso che da questo insieme di scambi tra mondi diversi e lontani che la miriade di piccoli Stati italiani generò l’Età dei Comuni e delle Signorie e un movimento come l’Umanesimo, da cui trasse linfa vitale il Rinascimento. Umanesimo e Rinascimento che si allargarono dall’Italia all’Europa dando vita ad una fase creativa talmente felice, paragonabile soltanto al precedente rappresentato dai due secoli in cui – tra la metà del secolo VI aC e la metà del IV sec. aC -  si irradiò la straordinaria forza propulsiva del mondo ellenico delle pòleis.

   La rottura determinata dalla Riforma e dalla Controriforma nel cuore dell’Europa generò un diverso percorso storico nell’economia e nelle istituzioni delle due aree, acuito da due fattori: l’avvento dei grandi Stati monarchici con forti rivalità tra le dinastie che sfociarono in tante Guerre di successione; la scoperta nel 1492 del continente americano da parte di Cristoforo Colombo che provocò un processo di lenta ma inesorabile marginalizzazione del Mediterraneo - che era stato il centro propulsore per millenni della vita economica e degli scambi culturali, artistici, scientifici - a favore delle potenze che si affacciavano sull’Oceano Atlantico. Dapprima Amsterdam e poi Londra emersero come nuove protagoniste della grande storia, le Città-Mondo.

    Gli effetti anche interni non tardarono a pesare affievolendo quel vortice di flussi che avevano raggiunto l’acme in figure emblematiche come quella di Erasmo da Rotterdam, intellettuale europeo per antonomasia. Per non parlare dei sommi artisti italiani, fiamminghi, francesi, spagnoli, della Mitteleuropa e così via.

   Lo sviluppo delle grandi monarchie consolidò difatti le barriere, alimentando culture che esaltavano le identità di ogni territorio in funzione degli interessi di dominio e di prestigio di ogni singola famiglia dinastica rispetto alle altre. Anche l’aspetto dell’appartenenza religiosa alla Riforma o alla Chiesa Cattolica, dopo un periodo di passaggi da una scelta all’altra, venne risolto dall’Imperatore Carlo V di Asburgo tramite l’Atto di Pacificazione di Augusta nel 1555: ogni Capo di Stato che dopo quell’Atto avesse deciso di cambiare religione avrebbe perso il trono. Da allora finì il balletto dei passaggi e nessun capo di Stato cambiò religione nel continente.

    Tra i cambiamenti di religione precedenti al 1555 un caso singolare fu quello del Re Enrico VIII Tudor d’Inghilterra. La causa scatenante fu una disputa personale tramutatasi presto in scontro politico. Il monarca inglese chiese al Vaticano l’annullamento del suo matrimonio dalla moglie Caterina di Aragona. Da Madrid, dove era al potere Carlo V di Asburgo,  arrivò al Vaticano l’aut-aut: qualora la Sacra Rota avesse accolto la richiesta del monarca inglese la Spagna e il Sacro Romano Impero (in quella fase rette entrambe da Carlo) avrebbero abbandonato la difesa ad oltranza della Chiesa Cattolica di fronte all’attacco in corso della Riforma Protestante. Il Vaticano preferì schierarsi con l'Imperatore negando la concessione del divorzio. Il Re inglese replicò ripudiando la moglie e  convolando a nozze con la concubina Anna Bolena nel 1533. Il Papa Clemente VII rispose con la scomunica e Enrico VIII convocò il Parlamento e si fece approvare nel 1534 l'Atto di Supremazia che segnò la nascita dello Scisma Anglicano, con una Chiesa nazionale di cui era a capo lo stesso monarca. Una strana Chiesa, che non si discostava minimamente dalla dottrina del Vaticano. Suo figlio Eduardo VI Tudor provvide dopo la sua morte nel 1547, avvalendosi dell'apporto dell'Arcivescovo di Canterbury Crammer,  a dare una parvenza religiosa allo scisma politico inserendo nella dottrina anglicana concetti del riformatore svizzero Ulrich Zwingli.

  Quello inglese non fu comunque l'unico caso in cui emerse l’inevitabile intreccio tra politica e religione. I movimenti collettivi lasciarono il posto alla politica degli equilibri tra i grandi Stati: appena un sovrano tendeva ad espandere i suoi domini oppure manifestava propositi di egemonia gli altri si coalizzavano per ridimensionarne le pretese.

   Così, mentre da una parte le grandi monarchie si lanciarono alla conquista di spazi nel nuovo continente con la potenza economica e militare imponendo la propria cultura e lingua alle popolazioni sottomesse, dall’altra parte l’Europa venne dilaniata e dissanguata da una sequenza interminabile di guerre sino a coinvolgere l’intero pianeta nelle due guerre mondiali del '900.

    L’eredità che ci trasciniamo dietro è quindi anche quella degli ultimi secoli, con le barriere psicologiche, gli odi, i rancori, le ferite laceranti delle sconfitte reciproche, i sensi di colpa dei pogrom e dei campi di sterminio, i drammi di regioni come l’Alsazia-Lorena contesa – a partire dalla fine del primo millennio – tra francesi e tedeschi senza che nessuno volesse riconoscere che in una terra di confine tra etnie diverse era logico che convivessero e si mescolassero elementi di entrambe le culture.       

  In questo contesto sono riemerse le culture minori, sommerse sinora sotto le culture e le lingue ufficiali degli Stati nazionali. Si tratta di etnie senza stato e sovente presenti nei territori confinanti di più Stati. Esse hanno cominciato a rivendicare, di fronte alla minaccia di estinzione della propria identità storica, culturale e linguistica, il diritto di essere riconosciute come entità “diverse” rispetto alla maggioranza in uno stesso Stato.

   In certi Paesi questa esigenza è stata incanalata nelle dimensioni di un confronto democratico e nella ricerca di punti di equilibrio. Uno di questi è certamente l’Italia, dove, nel caso dell’Alto Adige (Accordo De Gasperi-Gruber nel settembre 1946), s’è verificato addirittura il fenomeno di una minoranza trasformatasi in maggioranza privilegiata grazie all’“utilizzazione” restrittiva delle norme che avrebbero dovuto garantire la convivenza dei gruppi etnici italiano, tedesco e ladino nel rispetto paritario delle diversità.

   Cionondimeno in alcune regioni del Nord (in particolare in Lombardia, Piemonte e Veneto) sono nate negli Anni Ottanta Leghe xenofobe che sono confluite nella Lega Nord.  I leghisti hanno coltivato sogni ultra-autonomisti alimentandoli con idee-forza infarcite di luoghi comuni e ispirate da radicati pregiudizi: il mito di un Nord efficiente contrapposto ad un Sud sprecone che consuma buona parte del reddito prodotto dall’imprenditoria settentrionale; gli istinti egoistici e le aspirazioni a rinchiudersi nel bunker di un’area ricca che si sente danneggiata dalle parti arretrate del Paese; la diffusa convinzione che, allentando i lacci con Roma e prendendo le distanze dal Sud,  si possa essere più forti a livello europeo.

    Il cambiamento di rotta degli ultimi anni attuato da Matteo Salvini ha spostato l’attenzione dagli emigrati italiani al Nord ai migranti stranieri, conducendo una campagna costante per convincere gli elettori meridionali che la Lega non era più ostile a loro ma nazionale.

    La svolta si è rivelata ingannevole perché il disegno di legge Calderoli sull’Autonomia Differenziata, se sarà approvato, condannerà definitivamente il Sud ad essere sempre l’Italia di serie B. E costituirà una secessione di fatto.

 In linea di massima, comunque, la situazione italiana non è tra le peggiori rispetto al resto d’Europa, avendo varato nell'immediato secondo dopoguerra anche l’istituzione delle regioni autonome a statuto speciale per le realtà dove più marcate erano le specifiche identità rispetto alla comunità statale (le due grandi isole Sardegna e Sicilia e le tre regioni di confine Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta).

    Del tutto inadeguata è stata invece la politica dei governi italiani rivolta alla salvaguardia delle minoranze etnico-linguistiche non protette: gli sloveni del Friuli e i croati del Molise, i grecanici in Calabria e Puglia, le comunità germanofone non-altoatesine dei Walser in Valle d’Aosta e dei Cimbri in Veneto, i catalani della Sardegna, gli occitani del Piemonte, della Liguria e di Guardia Piemontese in Calabria, i franco-provenzali della Puglia e di San Fratello in Sicilia, gli albanesi dislocati nelle regioni meridionali ed in Sicilia, gli zingari – unico popolo nomade senza Stato sopravvissuto alle ondate migratorie che hanno ciclicamente investito l’Europa provenendo dalle steppe  dell’ Asia.

    Nei confronti di queste minoranze che non possono contare su solidi punti d’appoggio esterni (come la Francia per la Valle d’Aosta e l’Austria per l’Alto Adige) è stato scelto l’atteggiamento  - come ha rivelato Massimo Olmi nel suo saggio Italiani dimezzati – della “totale  indifferenza, ... nella convinzione che prima o poi ( meglio prima che poi) una coltre di silenzio si sarebbe stesa” su di esse. E' stata cioè adottata la linea dell’omogeneizzazione “per stanchezza, per rassegnazione, per scoramento più che l’omogeneizzazione forzata, decretata, imposta”.

     Ben più gravide di conseguenze si presentano le situazioni delle etnie minoritarie in altri Paesi dove esistono ferite incancrenitesi attraverso secoli. Ferite che hanno generato odi profondi e lacerazioni nel tessuto sociale e civile di quei Paesi.

    Talune minoranze hanno pagato per secoli il dramma di essere popoli di confine tra grandi Stati nazionali delle cui culture costituivano i punti d’incrocio etnico, culturale e linguistico (caso emblematico quello già ricordato dell’Alsace-Loraine, terra-ponte contesa per secoli tra francesi e tedeschi ed oggi significativamente divenuta sede e simbolo dell’Europa con la sua capitale Strasburgo).

     In altri casi la repressione sistematica operata su grandi e forti minoranze da regimi totalitari ne ha rafforzato la tendenza a chiudersi a quadrato rispetto al resto del mondo.

   Una situazione del genere è stata quella dei baschi in Spagna durante il regime franchista. Questo popolo – che si esprime in una lingua diversa dal ceppo comune indo-europeo e sulle cui origini si avanzano due ipotesi: una camitica nordafricana ed una caucasica preindoeuropea – rivendica da secoli una propria indipendenza nei confronti dei due grandi Stati nei cui territori rimane inglobato, la Spagna e la Francia.

    La nuova Spagna democratica ha dovuto fare i conti anche con altre forti minoranze sino a qualche anno fa soffocate dal franchismo. La più potente e definita nei suoi caratteri originali è la nazione catalana. Essa si avvale  del prestigio e del ruolo di primo piano nella politica, nella cultura, nell’economia e nella finanza della sua capitale. Barcellona è difatti il centro e l’anima della Catalogna e da secoli è nel novero dei grandi protagonisti nella costruzione dell’Europa delle città e della civiltà del Mediterraneo come momento d’incontro tra Nord e Sud, tra Occidente e Oriente. La questione catalana periodicamente riesplode e sinora non ha trovato soluzione. 

   La Francia, dal canto suo, si ritrova col dover scontare gli effetti della sua tradizione di Stato centralizzatore in cui è stata da sempre soffocata qualsiasi tendenza autonomistica. I Corsi ed i Celti della Bretagna manifestano una  tendenza a rivendicare la loro specificità nazionale ed i gruppi indipendentisti trovano nuova linfa nelle resistenze di Parigi a qualsiasi forma di decentramento.

    Un notevole risveglio culturale è in corso altresì nella nazione occitana, nella vasta area della lingua d’oc (la Francia meridionale dai confini spagnoli fino ad alcune valli del Piemonte, in particolare la Val Pellice e ad una propaggine in Calabria a guardia piemontese).

     La terra dei trovatori in lingua d’oc – con le loro ballate, poesie, leggende – ha esercitato una rilevante influenza sulla cultura francese ed europea costituendo un luogo di fusione tra tutte le onde lunghe e brevi e tra Atlantico e Mediterraneo. Tant’è vero che oggi, nonostante sia stata a suo tempo schiacciata dalla terra d’oil grazie anche alla crociata contro l’eresia degli albigesi, essa riemerge nella forma di nazionalismo culturale piuttosto che politico. Ed in tale direzione rappresenta un elemento ulteriore di arricchimento nel processo di unificazione europea.

      La Gran Bretagna – pur essendo uscita dall’Unione Europea - è lacerata dagli strascichi della guerra civile dell’Ulster tra i nazionalisti cattolici irlandesi – che puntano all’unificazione coi loro connazionali dell’Eire – ed i protestanti discendenti delle famiglie  inglesi che quattro secoli addietro – ai tempi degli Stuart – ottennero le proprietà confiscate alla nobiltà locale. Quella tensione sempre viva che ci viene presentata falsamente come un contrasto religioso tra cattolici e protestanti è in verità l'antico rancore mai sopito in quella regione tra gli inglesi che a metà del '600 decisero di creare una enclave sostituendo la nobiltà autoctona con loro aristocratici e gli irlandesi che non hanno mai digerito la prevaricazione. 

     Lo scenario britannico non è esaltante se all’interminabile conflitto dell’Irlanda del Nord, che scava solchi sempre più profondi, si aggiunge il fatto che riaffiorano con veemenza sentimenti nazionalisti tra i gallesi e gli scozzesi. Entrambi sono difatti eredi – assieme ai bretoni e agli irlandesi – dell’etnia e della cultura dei celti. La Scozia ha votato contro la Brexit, sta confermando la sua voglia del rientro in Europa ed è sempre più determinata a staccarsi dal Regno Unito.

    In Belgio è giunta al livello di guardia la frattura tra fiamminghi e valloni, determinando negli ultimi anni l'impossibilità di dare vita a governi stabili e duraturi. Le uniche ancore di equilibrio che tengono in vita questo Stato creato a tavolino dopo il Congresso di Vienna del 1814-15 sono la monarchia e la serie di vantaggi che ha generato la posizione di capitale europea di Bruxelles.

    L'Jugoslavia ha vissuto nel dopo-Tito un processo di disgregazione tra le varie culture ed etnie, tra la minoranza mussulmana e le diverse confessioni della maggioranza cristiana. Sono riemerse le differenze antitetiche tra la Slovenia e la Croazia, legate da sempre al mondo culturale della Mitteleuropa, e la Serbia, tradizionalmente vicina alla Russia. Oggi lo Stato inventato a tavolino nella Conferenza di Pace di Parigi del 1919 e organizzato nei trattati successivi  dopo il contemporaneo crollo dei due Imperi Austro-ungarico e Ottomano alla fine della Prima Guerra Mondiale è un lontano ricordo. Esistono gli Stati indipendenti di Slovenia, Croazia, Serbia, Bosnia-Erzegovina e Montenegro. Ad essi si è aggiunto il Kossovo, staccatosi dalla Serbia con l’avallo dell’Unione Europea e l’appoggio militare della Nato, i cui aerei hanno bombardato nel 1999 Belgrado per appoggiare la secessione.

    Infine ciò che ha sorpreso l'opinione pubblica mondiale meno informata è stato l’improvviso arrivo del ciclone nazionalità oppresse nell’ex-Impero sovietico durante la famosa Perestroika di Gorbacev. Un ciclone per molti inaspettato in quanto la propaganda sovietica aveva sostenuto per settant’anni che le culture delle singole nazionalità dell’Urss erano state superate dall’ideologia unificante del regime a partito unico comunista.

    Invece il fuoco covava sotto l’apparente monolitismo assicurato dalla ferrea pressione della polizia politica e dalla rigida censura e auto-censura dei media. Anzi, la repressione di qualsiasi forma di dissenso o di rivendicazioni di specifiche nazionalità ha raggiunto l’effetto opposto.

    Le identità della miriade di etnie, culture e tradizioni dell’Impero sovietico si sono consolidate nelle menti e nei cuori al punto tale da resuscitare fenomeni relegati nella memoria dello zarismo: i pogrom verificatesi contro gli armeni a Sumgait (Azerbaijan).

   E’ stato sufficiente il clima di relativa libertà garantito dalla perestrojka gorbacioviana per fare riesplodere – sovente in maniera violenta come reazione naturale alla  repressione dapprima zarista e poi comunista – odi antichi e aspirazioni sommesse, mai abbandonate.

   Gli avvenimenti del 1988/89 e dei primi mesi del ’90 – il caso della regione armena del Kabarak, le affermazioni dei candidati delle “piccole patrie” nelle elezioni in Russia, l’esplosione della rivolta albanese nel Kossovo, la caduta di Ceausescu in Romania la cui scintilla è stata innescata nella Transilvania dove la minoranza ungherese era stata per anni vessata e perseguitata, la proclamazione unilaterale d’indipendenza della Lituania seguita da Estonia e Lettonia, le aspirazioni  all’indipendenza di tutti i popoli diversi dell’Urss,  dai georgiani agli azeri, dai moldavi agli ucraini, dagli armeni ai turchestani e ai mongoli – hanno dimostrato pertanto la giustezza di una mia tesi.

    Occorre entrare nella storia dei popoli e dei paesi facendo lo sforzo di trasferirsi mentalmente dalla loro parte, come ci ha insegnato Erodoto di Alicarnasso, padre della Storia. Per descrivere usi, costumi, culture, religioni dei popoli dell’Asia Minore e dell’Egitto, andò a vivere con loro.

     Seguendo le orme di Erodoto, proviamo a metterci nei panni di chi deve governare il più grande Stato del mondo per estensione, un’estensione conquistata gradualmente per secoli attraverso campagne militari continue e sanguinose. Un’espansione  che, partendo dal Principato di Kiev ha via via sottomesso popoli  e territori differenti sino a Vladivostok, affacciata sul Mare del Giappone. E’ evidente che, sia per le dimensioni  che per gli strascichi di rancori di cui è stato disseminato il cammino, il Governo centrale di Mosca abbia dovuto esercitare un potere di controllo e di direzione ferrea. Altrimenti, alla prima apertura anche se parziale, si sarebbe formata un’onda sempre più inarrestabile sino alla disgregazione totale.

     La controprova è ciò che è avvenuto con Gorbacev e  con Eltsin. Si è scatenata la tendenza a chiedere l’indipendenza. Tendenza  che si è fermata soltanto con l’avvento al potere di Putin, che ha ripristinato il sistema dapprima zarista e poi comunista del Governo che regge l’intero Paese con l’esercizio di un potere centrale autocratico che concede esigui spazi alle libertà individuali e alle autonomie locali. 

    In sostanza nessun governo, anche il più dispotico ed oppressivo, può cancellare la memoria collettiva di un popolo, le “onde di lunga durata” della sua storia: le vicende vissute dalla comunità, la lingua e la cultura, la mentalità e le consuetudini, la religione e le credenze popolari, le istituzioni familiari e quelle politiche. Al massimo, le può mortificare o schiacciare per un periodo più o meno lungo, ma esse riemergono sempre dalle viscere dell’anima popolare anche dopo molto tempo per rivendicare il diritto al rispetto della propria identità.

   Pertanto, l’unico approccio costruttivo per la realizzazione di un’Europa che superi barriere vecchie e nuove senza andare incontro a nuove avventure autodistruttive, è quello federalista.

    Infatti l’Europa continua ad avere un peso determinante nel mondo anche grazie alla ricchezza delle sue diversità, all’intreccio di differenti linguaggi, bisogni, tradizioni, aspirazioni che si sono sovrapposte, non sempre riuscendo a trovare forme di convivenza fondata sulla tolleranza e sul rispetto delle reciproche identità, comprese quelle minoritarie.

   Non è un caso che la civiltà europea abbia visto la luce per merito del popolo ellenico, che si caratterizzò come unità culturale nella diversità della sua miriade di pòleis gelose ciascuna della loro indipendenza.

   Non è altresì un caso che il Paese dove sono fioriti i movimenti culturali che hanno gettato le basi dell’Europa moderna – l’Umanesimo ed il Rinascimento – sia stato l’Italia, unica nazione che in quella fase storica non venne unificata da una dinastia regnante.

   E non è infine un caso che un eccezionale contributo allo sviluppo europeo sia stato dato da due popoli apolidi come gli ebrei e gli zingari. Gli Ebrei si sono dislocati in città piccole e grandi dai porti del Mediterraneo al cuore dell’Europa e ai porti del Baltico, dando vita ad una rete di rapporti che non sono stati solo economici e commerciali ma hanno costituito un flusso continuo di scambi di conoscenze e di saperi. Costretti a vivere chiusi nei ghetti, si sono inventati forme di vita comunitarie, hanno coltivato le arti, le lettere e le scienze, hanno raggiunto un livello di istruzione elevato e hanno alfabetizzato tutti i membri grazie alle loro scuole. Tant'è vero che quando è stato loro consentito nel corso dell'800 di uscire dai ghetti, sono stati in grado di affermarsi in tutte le arti e professioni, rinfocolando purtroppo idee e atteggiamenti di chiaro stampo antisemita e razzista. 

    Dal canto loro gli zingari rom e sinti hanno attraversato  in lungo e in largo con le loro carovane il continente, trasferendo e contaminando conoscenze nelle fiere popolari di grandi e piccoli centri. Le grandi carovane nomadi hanno costituito per secoli i più grandi nuclei viaggianti pacifici (gli altri sono stati gli eserciti belligeranti) che assicuravano al popolo una giornata di festa con funamboli, giocolieri, domatori, fabbri, artigiani, merci introvabili con i merciai ambulanti, spettacoli con le compagnie dei teatranti e musicanti che erano l'alternativa, sino alla seconda metà del '700, ai Teatri di Corte e dei palazzi nobiliari. 

    Anche questi due popoli erranti hanno arricchito la storia d’Europa. Hanno diffuso e trasmesso idee, conoscenze, informazioni che rappresentano – nonostante le frequenti persecuzioni, i progrom, l’odio razzista e la follia sterminatrice nazista della shoah che li ha decimati nei campi di sterminio di mezza Europa - un patrimonio culturale indelebile.

 

  1. IL SOGNO DELLA FEDERAZIONE EUROPEA DA VENTOTENE AL TORTUOSO CAMMINO DELL’UNIONE

    L’idea di avviare un processo di unificazione europea nacque dai colloqui di tre confinati politici italiani nella piccola isola pontina di Ventotene: il socialista Eugenio Colorni, Ernesto Rossi (Giustizia e Libertà) e Altiero Spinelli (ex-comunista, espulso nel 1937 per critiche a Stalin). L’esito delle loro intense discussioni, in cui ciascuno portò le sue personali convinzioni, idee e formazione culturale, fu la redazione comune di un Manifesto che auspicava l’avvio di un processo di unificazione dell’Europa. Il titolo orginale era Per un'Europa libera e unita. Progetto d'un manifesto. Quell’Europa che - con le sue rivalità, incomprensioni, divisioni, guerre, paci punitive per gli sconfitti  tra popoli e Stati nazionali che si erano dilatate e incancrenite per secoli generando odi, rancori e pregiudizi reciproci - era stata la causa della Grande Guerra del 1914-18 e nel 1939-45 della sua replica, ancora più feroce e tragica, in un conflitto mondiale che stava causando una strage ancora maggiore a livello planetario.

    Il sogno dei tre intellettuali aveva come obiettivo principale il superamento delle aspre rivalità e contese tra i vari Stati Nazionali, grandi e piccoli, mediante la costruzione di un’Europa federale che avesse come modello ispiratore quello degli Stati Uniti d’America.

    Certamente essi valutarono le differenze enormi tra le condizioni di partenza. Il cammino dei rivoluzionari nordamericani del tardo Settecento era stato reso agevole da alcuni punti obiettivamente favorevoli:

  1. Non erano Stati indipendenti che si erano combattuti tra di loro come quelli europei in numerose guerre, accumulando reciprocamente odi e rancori e desideri di rivalsa o di vendetta;

  2. Erano tredici colonie appartenenti ad un unico Stato – il Regno inglese – con una sola lingua, gli stessi ordinamenti giuridici, la stessa organizzazione amministrativa, lo stesso sistema finanziario e fiscale;

  3. Erano territori popolati da immigrati da diverse aree europee che avevano in comune il desiderio di crearsi una nuova vita in territori nuovi e in parte ancora sconosciuti. Erano diversi e distanti per culture, tradizioni e modelli di attività. Avevano instaurato rapporti di buon vicinato con le popolazioni originarie autoctone, che avevano una concezione della vita sociale ed economica di impostazione comunitaria e non conoscevano il concetto di proprietà privata. Ciò aveva consentito ai nuovi arrivati di impossessarsi di proprietà piccole e grandi non incontrando eccessive resistenze.                         Nelle colonie più a Sud i proprietari inglesi che vi si erano insediati acquisendo con la prepotenza e con atti illeciti grandi proprietà avevano scoperto che le condizioni climatiche avrebbero consentito proficui guadagni destinando i terreni a grandi piantagioni intensive di cotone e di altri prodotti tropicali. Dopo iniziali tentativi miseramente falliti di trasformare i liberi cacciatori autoctoni in braccianti agricoli, avevano optato per l’importazione di schiavi africani, che vennero trasferiti per secoli in catene stipati nelle navi negriere dalle coste dell’Africa dove erano presenti avamposti militari delle grandi potenze coloniali europee;

  4. In tali condizioni fu agevole trovare un’intesa tra le ricche classi dirigenti formatesi nelle colonie – che erano escluse dagli incarichi politici riservati soltanto a inviati diretti dalla madrepatria ma avevano ormai tra le loro file leaders intellettuali che si erano formati studiando e viaggiando ed erano in stretti rapporti con i centri più vivi della cultura illuminista europea – per l’obiettivo comune: la protesta corale contro i disagi economici provocati dalla dura politica fiscale imposta da Londra alle colonie per rinvigorire le casse dello Stato dissestate dagli enormi costi della prima guerra esportata dalle potenze europee nelle Americhe, in Africa e in Asia: la lunga stressante Guerra dei Sette Anni tra il 1756 e il 1763 tra due alleanze numerose, quella diretta da inglesi e prussiani (che risultò vincente) e quella capeggiata da Austria e Francia (che ne uscì perdente).

   La Rivoluzione americana quindi aveva avuto come motivazione prevalente la liberazione dal giogo economico e fiscale inglese. La grande filosofa ebrea tedesca  Hannah Arendt (fuggita dapprima in Francia e poi negli Stati Uniti) ha osservato e descritto meriti e limiti della Rivoluzione delle tredici colonie inglesi. Essa, perfettamente riuscita, generò senz’altro un sistema politico capace di garantire i diritti civili dei cittadini e il principio di libertà individuale, ma non fu altrettanto sensibile riguardo agli aspetti dell’equità sociale, tuttora non avvertiti come prioritari dalla maggioranza del popolo statunitense. Ne sono prova le dure resistenze da sempre incontrate da chi ha tentato (come Barack Obama) di portare verso livelli di giustizia sociale la sanità o tentato di ridurre la libera circolazione e vendita di armi, che vanno ben oltre il diritto del cittadino di possedere armi per la sua difesa personale previsto dal II Emendamento della Costituzione e consentono a chiunque di dotarsi di veri e propri micidiali arsenali militari in casa.

    Cionondimeno il sogno di una federazione di Stati Europei che era nato  nella piccola isola pontina prese piede perché venne influenzato dalla mescolanza di una serie di fattori: il secondo grande conflitto mondiale in corso con i suoi effetti tragici, la condizione psicologica del confino, le differenti personalità e i percorsi formativi degli autori.

    Si trattava di intraprendere un percorso che andava controcorrente rispetto al corso della Storia dell’umanità. L’unico tentativo riuscito pienamente di unificare sotto un potere politico unico tutta l’Europa al di sotto del Danubio e del Reno era stato quello di Roma. Ma non era stato il risultato di una libera scelta dei popoli. Era stato il risultato di guerre continue e di occupazioni militari che dopo secoli avevano visto avanzare Roma a tal punto da risultare l’unico caso, mai più ripetuto, di assoggettare le popolazioni di tutti i territori che si affacciavano sulle sponde del Mediterraneo dall’Europa all’Africa e all’Asia.

     Gli altri tentativi di unificazione compiuti dopo la caduta dell’Impero Romano di Occidente nel 476dC ebbero anch’essi un comune denominatore: l’attacco militare per imporre con la forza il potere politico di uno Stato su altri popoli e territori. Tra essi si possono ricordare i casi di Carlo Magno con il Sacro Romano Impero, Federico Barbarossa di Svevia, Carlo V d’Asburgo, Luigi XIV di Borbone e Napoleone Bonaparte.

    Ultimo in ordine di tempo fu il piano diabolico di Hitler di sottomettere il continente al suo potere assoluto per creare un impero pangermanico dominato dalla razza superiore ariana  con tutti gli altri popoli sottomessi a un regime di tipo coloniale. Quest’ultimo tentativo apparve inarrestabile sino ai primi mesi del 1941 attraverso le avanzate delle armate germaniche nell’intero continente europeo. Ma nel corso del 1941, da una parte la battaglia di Stalingrado segnò la fine dell’avanzata nazista in Russia e dall’altra l’ingresso in guerra degli Stati Uniti costituì una svolta decisiva grazie all’immensa capacità del loro sistema produttivo e a quella mediatica dei giganti dell’industria cinematografica di Hollywood, che affiancarono all’intervento militare una campagna di propaganda mediatica senza precedenti nella storia. Non fu altresì trascurabile un vantaggio oggettivo: quello del non coinvolgimento come teatro di guerra del loro territorio e la conseguente possibilità di una mobilitazione civile senza essere disturbati da attacchi diretti. 

     Il Manifesto di Ventotene – pur presentandosi come un’utopia - rappresentò tuttavia una sfida a tutti i precedenti storici. Lanciò l’idea di unificazione imperniata sulla libera scelta di ogni singola realtà statuale di privarsi gradualmente di porzioni della propria identità per cederla a un’entità superiore. Una procedura non facile, ben più ardimentosa e complicata della scelta di tredici colonie dipendenti da uno stesso Stato di mettersi insieme per costituire una Repubblica Federale Indipendente. Una procedura che risultava improponibile in un continente solcato da ferite profonde e da odi laceranti.

    Nella miriade di percorsi storici differenti, di lingue diverse, di culture contrapposte, di ordinamenti giudiziari talora antitetici, di sistemi amministrativi, economici, monetari, giudiziari fortemente pervasi da nazionalismi esasperati, riuscire a convincere i singoli Stati a mettersi alle spalle rivalità, odi, rancori consolidati da secoli di guerre e stragi che reciprocamente rivendicavano, apparve a molti come un cumulo di ostacoli tali da generare una rinuncia a inseguire quella che si presentava come una utopia irraggiungibile.

    Accadde invece che un gruppo di leaders, temprati da esperienze personali drammatiche dovute alla più tragica guerra che avesse coinvolto soprattutto i popoli rispetto agli eserciti, decisero di avviare egualmente il cammino. Tanto per dare un’idea delle dimensioni spaventose del conflitto recenti difficili ricostruzioni statistiche, tutte approssimative, hanno concordato su cifre spaventose: si stima che le perdite complessive di vite umane nel secondo conflitto mondiale siano di oltre 68 milioni. Di queste le vittime militari sarebbero state circa 24 milioni e mezzo e quelle civili circa 43 milioni e mezzo. Il triste primato del numero maggiore di vittime lo pagò la Russia con 25 milioni di vittime totali, suddivise in 17 milioni di civili e 8 milioni di militari. Al secondo posto la Cina, con circa 19 milioni e 600.000 vittime, di cui 15 milioni e mezzo di civili e 4 milioni e 100.000 militari. Numeri giganteschi, per non parlare di città in buona parte distrutte (come la tedesca Dresda) o fortemente danneggiate dai bombardamenti a tappeto. Un’azione indirizzata a colpire soprattutto la popolazione civile per terrorizzarla e spingerla a chiedere la resa ai propri governanti, inaugurata dall’aviazione hitleriana sulla città basca di Guernica  durante la Guerra Civile spagnola del 1936-39, passata alla storia grazie a un dipinto di Pablo Picasso, e applicata da tutti i belligeranti nel conflitto del 1939-45.

    A questi tragici effetti si aggiunsero i sei milioni di morti nei campi di sterminio nazisti, applicazione estrema delle aberranti teorie della superiorità della razza,  e la terrificante distruzione con due sole bombe atomiche delle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, che indussero l’Imperatore del Giappone a chiedere la resa per mettere la parola fine alla carneficina della Guerra più devastatrice nella storia dell’umanità.

     Sulla scia di queste emozioni il Manifesto di Ventotene divenne, alla fine del conflitto, il punto centrale di riferimento di pensatori e leaders politici illuminati che decisero di sviluppare quel seme. L’obiettivo prioritario dei padri fondatori Robert Schumann, Jean Monnet, Alcide De Gasperi e  Konrad Adenauer fu quindi imperniato sul presupposto che il vecchio continente non originasse più catastrofici conflitti per effetto delle sue rivalità interne ma dovesse invece rafforzare il filone più innovativo e positivo da esso apportato alla storia del mondo: l’invenzione della filosofia con tutti i suoi annessi, dalla libertà dei popoli a quelle dell’individuo, dal rispetto dei diritti umani alla partecipazione politica, dalla trasformazione della politica da elemento di dispotica utilizzazione del potere a strumento di dibattito e partecipazione sfociato nella prima democrazia, quella diretta di Atene,  e in quella per delega mediante il voto delle età moderna e contemporanea.

    Sei Stati (Belgio, Francia, Germania Occidentale, Lussemburgo, Italia e Paesi Bassi) fondarono dapprima nel 1951 col Trattato di Parigi la CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) e poi col Trattato di Roma del 1957 la CEE (Comunità Economica Europea) e l’Euratom.

    La svolta principale di quella scelta fu la presenza tra i sei paesi fondatori di due storiche potenze rivali – Francia e Germania Occidentale - che nel cuore dell’Europa avevano generato diversi conflitti, compresi gli ultimi due mondiali. La  conferma della volontà reciproca di superare l’antica rivalità fu la chiusura di una vertenza mai risolta in quasi mille anni: la Regione dell’Alsazia-Lorena, abitata - come tutte le zone di confine - da una popolazione mista francese e tedesca. Una regione assegnata dopo ogni guerra al vincitore di turno. Per suggellare il superamento di quella disputa millenaria Francia e Germania concordarono di proporre come Sede del futuro Parlamento Europeo la città di Strasburgo, capitale dell’Alsazia-Lorena. Anche la scelta della capitale istituzionale della Comunità a Bruxelles, capitale del Belgio, fu in pratica il risultato di una mediazione tra i due maggiori contraenti del patto a sei iniziale. Se guardiamo a tutte le tappe successive dell’unificazione possiamo dedurre che i momenti migliori del tortuoso cammino unitario hanno coinciso con fasi di buoni rapporti tra Francia e Germania, mentre i momenti di stallo e di crisi hanno corrisposto a frizioni o incomprensioni nei loro rapporti bilaterali. 

    Nel 1973 aderirono Danimarca, Irlanda e Gran Bretagna. L’ingresso inglese – accolto come un notevole passo avanti verso l’obiettivo unitario – si rivelò invece fortemente destabilizzante e in più occasioni frenante, caratterizzato da un atteggiamento ambiguo e troppo influenzato dalla permanenza di due sentimenti largamente diffusi nella politica estera di Londra. Da una parte era ancora molto presente l’orgoglio imperiale alimentato dal Commonwealth e dalla permanenza di una parte consistente di colonie ancora saldamente nelle loro mani. Dall’altra era largamente presente un diffuso sentimento di ostilità e di propria superiorità verso l’Europa continentale.

    A calcare su questo tasto contribuì il cordone ombelicale che dopo la Guerra d’Indipendenza e la guerra del 1812-15 aveva visto sempre appaiate le due realtà statuali di Washington e Londra in tutte le crisi internazionali e in tutte le Guerre, sino a quelle in corso nel pianeta e a quella attuale in Ucraina. Per l'ennesima volta l'alleato più allineato con Biden è il governo inglese, che tende spesso a essere ancora più rigido di Washington. Motivo per cui non ho mai considerato l’uscita inglese dall’Unione Europea come una grave perdita ma come una liberazione da un partner che era stato sempre con un piede dentro e un piede fuori dall’Europa, col cordone ombelicale mai del tutto spezzato con gli stati Uniti.

    Nel 1979 per la prima volta i cittadini dei nove Stati elessero a suffragio universale i rappresentanti nel Parlamento Europeo di Strasburgo. Nel 1981 venne l’adesione della Grecia e nel 1986 fu la volta di Portogallo e Spagna.

    Il 1° novembre 1993 entrò in vigore il  Trattato di Maastricht, istitutivo dell’Unione Europea (UE) con la finalità di superare l’aspetto esclusivamente economico che aveva caratterizzato la fase avviata nel 1957  e di puntare su  un’unione sempre più stretta, anche politica, culturale e sociale. Protagonista principale della svolta fu la forte figura del socialista francese Jacques Delors, Presidente della Commissione Europea.

     Nel 1995 aderirono Austria, Finlandia e Svezia. Il 2 ottobre 1997 tredici dei quindici Stati (esclusi Gran Bretagna e Irlanda) ratificarono col Trattato di Amsterdam il sistema di Schengen, che stabilì la libera circolazione delle persone all’interno dei tredici Paesi firmatari.

     Nel 1998 nacque l’Unione Economica e Monetaria (UEM), basata sulla libera circolazione dei capitali, oltre che delle merci e delle persone, e soprattutto sull’istituzione della moneta unica. La realizzazione dell’ambizioso obiettivo richiese l’impegno dei paesi membri a risanare le proprie condizioni finanziarie, per ottemperare a una serie di parametri, stabiliti dal Trattato, relativi a deficit e debito pubblico e al tasso d’inflazione.

    Questa operazione di alleggerimento venne realizzata con qualche eccesso di zelo e con qualche concessione di troppo al pensiero unico neo-liberista, imperniato su drastici tagli alle spese dello Stato Sociale (specie nell’istruzione, nella cultura e ricerca  e nella sanità) e su una privatizzazione selvaggia e generalizzata di servizi ed enti di utilità pubblica (energia, trasporti, previdenza sociale).

    Le direttive sullo smantellamento dello Stato Sociale conseguirono però, come tante altre, reazioni differenti e conobbero destini diversi grazie alla pluralità di sistemi politici dell’Europa.

    I Paesi scandinavi concessero ben poco, preservando i cardini dello Stato Sociale della cui efficienza avevano fatto un vanto nazionale. Dal canto suo la Francia non smantellò tutto il suo efficiente sistema di servizi pubblici ma si limitò ad alcuni miglioramenti e correttivi che non intaccarono il suo forte apparato statale centralizzato. Gli Stati dell’Europa Centrale (Germania e Benelux) e la stessa Italia, dopo alcune fasi di ubriacatura per le privatizzazioni con svantaggiosi riflessi economici e sociali, subirono l’azione frenante di un composito schieramento di forze:  l’associazionismo della società civile, la Chiesa cattolica e le Chiese protestanti, i sindacati, i partiti di ispirazione cristiana, quelli più legati alla tradizione socialista e quelli di destra più fedeli ad una visione di stato sociale;  e infine i movimenti New Global.

    La Gran Bretagna fu invece protagonista - grazie alla forte leadership di Margaret Thatcher (che si guadagnò il soprannome di Iron Lady=Signora di ferro) -  di uno smantellamento radicale del Welfare che l’aveva vista protagonista di primo piano durante l’immediato secondo dopoguerra. Uno smembramento di cui ancora sta pagando gli effetti disastrosi in diversi settori.

     Sul versante orientale europeo una vera e propria ondata di privatizzazioni investì i Paesi ex-satelliti dell’URSS dopo il crollo del muro di Berlino del 1989. Si trattò di una conseguenza comprensibile. Innanzitutto dovevano recuperare il tempo perduto di una statalizzazione selvaggia e indiscriminata. In secondo luogo erano animati dal frenetico desiderio di liberarsi di qualsiasi elemento distintivo rispetto ai regimi politici che erano stati loro imposti nel secondo dopoguerra. Tra il 1947 il 1948, dopo che nelle prime elezioni del 1946 il Partito Comunista aveva raccolto consensi molto modesti nei Paesi che erano stati liberati dall'Armata Rossa, Stalin decise di ricorrere a una serie di colpi di Stato organizzati dal KGB e sostenuti dalla presenza militare diretta in quei territori. Nel giro di due anni vennero spazzati via i governi eletti nel 1946 e vennero imposti regimi a partito unico comunista ispirati al modello sovietico.

     Furono gli effetti del Patto di Yalta in Crimea del febbraio 1945, quando gli ormai certi vincitori della Guerra agli ultimi bagliori (USA, URSS, Gran Bretagna e Francia) decisero il futuro assetto dell’Europa, focolaio dell’intero conflitto. Venne concordato che il continente sarebbe stato riorganizzato in aree di influenza, determinate secondo un unico criterio: laddove si era stato o ci sarebbe stato l’intervento di liberazione da parte russa quegli Stati sarebbero entrati nell’area di influenza sovietica, con diritto di intervento dell'Armata Rossa in caso di rifiuto da parte di uno Stato di sottostare all’influenza. Lo stesso meccanismo sarebbe valso dall’altra parte: gli Stati liberati dall’Esercito degli Alleati Occidentali capeggiati dalla superpotenza americana avrebbero fatto parte dell’area di influenza Occidentale a direzione USA.

    Il caso dell’Italia spiega lo sviluppo del Patto in campo occidentale  quando si delineò la contrapposizione che sfociò nell’inizio della Guerra Fredda tra i due blocchi dominati dalle superpotenze vincitrici USA e URSS. Alcide De Gasperi – Presidente di un governo di coalizione tra tutti i partiti della Resistenza - nel gennaio del 1947 volò a Washington per chiedere l’aiuto economico indispensabile per ricostruire il paese ridotto in rovina e alla fame dalla Guerra. Ottenne un risultato parziale rispetto alle sue aspettative: un primo aiuto che rappresentò comunque una boccata d'ossigeno. Tant'é vero che i giornali lo definirono il "Viaggio del pane".

    Nello stesso mese di gennaio si consumò la scissione del PSIUP, che nelle elezioni del '46 era risultato il secondo partito dopo la DC davanti al PCI di Togliatti. La scissione guidata da Giuseppe Saragat portò alla costituzione del PSDI, caratterizzato da una chiara posizione filo-occidentale contro la maggioranza guidata da Pietro Nenni che confermò la stretta alleanza con i comunisti riassumendo il vecchio nome di PSI. Seguirono mesi convulsi che videro il governo sempre più traballare mentre spiravano ormai i venti della rottura della Guerra Fredda con l'irrigidimento dei due blocchi.

    Il clima era sempre più irrespirabile. Il Presidente Truman fece conoscere la sua posizione in maniera netta: l’Italia sarebbe stata inserita nel Piano Marshall per la ricostruzione dei Paesi occidentali a condizione che De Gasperi cacciasse socialisti e comunisti dal suo Governo. Cosa che avvenne nel maggio 1947. De Gasperi aprì la crisi col chiaro intento di escludere PCI e PSI dal Governo. Nello stesso periodo avvennero gli allontanamenti dei Ministri comunisti anche in Francia, Belgio e Lussemburgo. Mentre sull'altro fronte Stalin organizzava la serie di colpi di Stato che portarono al potere di regimi a partito unico i capi dei partiti comunisti. l’Italia entrò nel Piano Marshall rivolto a finanziare la ricostruzione economica dei Paesi compresi nell'area dell'Europa Occidentale. Il Piano (di 17 miliardi di dollari) venne annunciato nell'Università di Harvard dal Sottosegretario di Stato americano il 5 giugno 1947, entrò in fase operativa nella primavera del 1948 e si concluse nel giugno 1952.

    I Paesi dell’Est spesso esagerarono dopo il 1989 nello strappo dal sistema imposto loro con la forza nel dopoguerra,  finendo col gettare il bambino assieme all’acqua sporca. Un comportamento simile aveva ad esempio caratterizzato le vicende italiane dei primi decenni dopo l’unificazione del 1861, quando era stato attuato il concetto di fare tabula rasa di tutto ciò che aveva a che fare con gli Stati pre-unitari. Mentre su alcuni settori – come i beni culturali e artistici e i monumenti - per fortuna l’attuazione era stata molto parziale (grazie in parte al buon senso e in parte all’inefficienza amministrativa), diversa sorte era toccata a istituti, ordinamenti politici e amministrativi e strutture industriali del Sud, sottoposti a frettolosi smantellamenti a favore di una troppo marcata e acritica piemontesizzazione.

    Dopo politiche finanziarie di grande rigore e rilevanti sacrifici delle popolazioni il Consiglio europeo stabilì che undici paesi avevano i requisiti per istituire la moneta unica, per la quale era stato scelto il nome di “Euro” nel Consiglio Europeo di Madrid del 1995. Fu istituita la Banca Centrale Europea (BCE) per il governo unificato della politica monetaria e nel 1999 l’Euro diventò la moneta ufficiale di undici paesi, cui si aggiunse un anno dopo la Grecia. Non superarono invece il solido sbarramento delle resistenze nazionali Gran Bretagna, Danimarca e Svezia.

    Il balzo avvenuto con l’istituzione dell’Euro fu in quel caso di una rilevanza eccezionale se si tiene presente che da quando nel VII sec. A.C. venne inventata la moneta essa è stata sempre uno dei cardini fondamentali di identità di qualsiasi Stato, regime o sistema politico. La rinuncia volontaria alla propria moneta nazionale implicava quindi uno sforzo non soltanto politico, tecnico ed economico. Coinvolgeva la sfera psicologica sia collettiva che individuale di tutti i cittadini.

    Venne pertanto concordato che la circolazione fisica dell’Euro, col  ritiro dalla circolazione delle monete nazionali, sarebbe avvenuta soltanto dal gennaio 2002. La moneta unica è stata comunque una tappa storica straordinaria per il sogno nato a Ventotene e tramutatosi in un percorso che ha dell’incredibile.

   Meno felice e gravido di incognite per il processo unitario è stato invece il Passo troppo lungo e rapido compiuto con l’imbarcata di troppi Stati nel 2004. Il Primo Maggio di quell’anno ha dato l’impressione nell’immediato di essere una tappa tra le più ricche di prospettive  per il cammino dell’unificazione dell’Europa. Sono entrati nell’Unione Europea 10 nuovi Stati (Polonia, Estonia, Lettonia, Lituania, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Malta e Cipro-parte greca) segnando il passaggio da 15 a 25 Paesi membri.

    I dati dell’ampliamento, dal punto di vista quantitativo, sono stati straordinari. La UE ha raggiunto i 455 milioni di abitanti ed ha avuto un incremento del 30% della superficie. Le lingue parlate ufficiali sono passate a 20. Si sono ritrovati nella stessa grande famiglia popoli che erano stati per secoli in guerra tra loro. Tutti assieme accanto a due Stati che hanno costituito il perno centrale del tortuoso ma positivo percorso dell’unificazione: Francia e Germania.

     Sono seguite le elezioni del 10-13 giugno per inviare al Parlamento di Strasburgo i rappresentanti di questa Europa allargata. Per la verità non hanno riscosso una grande adesione. La media europea di partecipazione al voto è stata del 45,5%, un dato non esaltante. Le percentuali più alte sono state raggiunte da Belgio (90,81%), Lussemburgo (90%), Malta (82,37%) e Italia (73,1%), mentre il top negativo è stato toccato da slovacchi (16,66%) e polacchi (20,42) e da altri popoli dell’ex-blocco sovietico dell’Europa Orientale. In Gran Bretagna, già di per sé Paese capofila storico della corrente più tiepida e decelerante del processo di unificazione, ha riscosso oltre il 10% dei consensi un Partito Indipendentista per l’uscita dall’Unione.

   Mentre gli euroscettici e gli anti-europeisti stavano già declamando le ennesime orazioni funebri per l’Unione naufragata in mezzo all’indifferenza dei cittadini, è sopraggiunto il colpo d’ala. Il 18 giugno la Presidenza irlandese ha ottenuto sul filo di lana un risultato che ha rilanciato l’unificazione: dopo due giorni di estenuanti e talora aspre discussioni è stata approvata all’unanimità dai 25 Primi Ministri la prima Costituzione Europea.

    Essa è stata il frutto dell’ennesimo compromesso tra le due correnti di pensiero che si stanno confrontando da decenni: quella capeggiata da francesi e tedeschi,  che ha costituito il motore dell’Unione fin dagli Anni Cinquanta assieme all’Italia e ai Paesi del Benelux (Belgio, Lussemburgo e Olanda); e quella guidata dagli inglesi, i quali hanno sempre tenuto un piede dentro l’unificazione europea (per non restarne tagliati fuori) e l’altro sempre al di fuori del Vecchio Continente. Un atteggiamento reso agevole dalla predominanza di etnia, cultura e lingua anglosassoni in alcuni Stati del Commonwealth (in particolare Australia, Canada escluso il francofono Quebec, Nuova Zelanda) e dal solido cordone ombelicale che dagli Anni Venti dell’Ottocento ad oggi li ha sempre legati agli USA.

    Alcuni notevoli passi avanti sono stati comunque compiuti. Ne è uscito esaltato il ruolo centrale del Parlamento Europeo cui sono state demandate funzioni più ampie e determinanti che consentiranno una più ampia unificazione politica. Tra esse vale la pena rimarcare il raddoppio delle funzioni legislative e il diritto a dire l’ultima parola sul bilancio, l’elezione del Presidente della Commissione e la ratifica della nomina del Ministro degli Esteri (funzione politica inserita per la prima volta) e dei Commissari.  Su questo decisivo passo è giusto alimentare speranze ma essere anche cauti. Il ricorso all’approvazione per referendum da parte di alcuni Stati ridarà sicuramente fiato ai partiti e ai movimenti ultranazionalisti, leghisti e indipendentisti avversi all’unificazione, col rischio di una o più bocciature.  Questa coda ha ribadito il percorso altalenante dell’unificazione.

    Non c’è tuttavia da stupirsi se si considera l’eccezionale unicità del processo di aggregazione europea rispetto alla storia dell’intera umanità. Esso difatti rappresenta un sogno che si sta traducendo in realtà con un cammino a balzi, suscitando volta per volta aspri contrasti. Un cammino che costituisce comunque un miracolo, perché per la prima volta  si sta costruendo un nuovo soggetto politico-istituzionale mediante un percorso inedito: la progressiva associazione non come effetto di una guerra grazie a cui il vincitore incorpora tutto o parte del territorio dello sconfitto; né come esito di annessioni più o meno eterodirette o imposte; ma come risultato di una graduale e volontaria rinuncia di una parte di sovranità, pezzo dopo pezzo, da parte di Stati indipendenti.

    Un procedimento così anomalo e senza precedenti è naturale che sia sempre passato attraverso fasi di accelerazione e periodi di ristagno, con risoluzioni che spesso sono state contrastanti o differite nei tempi da parte di alcuni paesi rispetto ad altri.

    Anche l’evento dell’entrata dei dieci nuovi Stati dal Baltico al Mediterraneo ha dato vita alle reazioni più disparate, che hanno oscillato con varie gradazioni tra i due estremi del trionfalismo più acritico e del catastrofismo più cupo.

    L’impressione più diffusa è che sia stato sicuramente incrementato un gigante economico e nel contempo sia stato però ribadito un nano politico. Insomma un gigante con i piedi di argilla, per un verso la terza area di consumo del mondo dopo Cina e India e per l’altro incapace di esprimersi con una sola voce e una sola volontà in tanti campi e in particolare in politica estera. La rinnovata consapevolezza della fragilità politica ha accelerato il varo della prima Costituzione elaborata dalla Convenzione presieduta dal francese Valery Giscard d’Estaing, con la previsione di un unico Ministro degli Esteri.

    Persino un leader prestigioso come Jacques Delors, che da Presidente della Commissione Europea aveva impresso nei primi Anni Novanta una svolta decisiva da Maastricht alla moneta unica dell’Euro, si è chiesto in quale direzione voglia andare questo gigante. Altri autorevoli esponenti hanno espresso perplessità di fronte alla prospettiva di nuove adesioni (nel 2007 quelle di Bulgaria e Romania e nel 2013 quella della Croazia) ma soprattutto di recenti richieste di adesione da parte di paesi di Africa e Medio Oriente.

 

  1. L’EUROPA DELLE UNITÀ E IL NECESSARIO SUPPLEMENTO D’ANIMA

    Se l’Europa delle diversità vuole recuperare il bandolo della matassa deve ritrovare la forza di abbattere o comunque di attenuare i tanti muri eretti su tre ambiti:

  1. Quello più ampio e profondo tra le due Europe, al di sotto e al di sopra dell’antico confine romano, segnato dai due grandi fiumi Reno e Danubio, in pratica tra Europa Mediterranea ed Europa Centro-Settentrionale;

  2. quelli molto più numerosi tra i 27 Stati attuali dopo la Brexit dell’Inghilterra;

  3. quelli più frastagliati all’interno degli Stati tra etnie diverse e tra maggioranza nazionale e minoranze etniche, culturali, linguistiche e religiose.

    Deve altresì superare le nuove divisioni del secondo dopoguerra che hanno visto alzare barriere tra Europa Occidentale ed Europa Orientale, spaccare in due la Germania ed una città storica come Berlino, dissolvere la fioritura culturale di città mitteleuropee quali Praga,  Budapest, Varsavia, Cracovia e il ruolo di città balcaniche come Bucarest, Sofia, Belgrado e Zagabria.

  L’ipotesi federalista è – alla luce della storia – l’unico terreno praticabile con buone prospettive di successo, in quanto consente di costruire un’unità che rispetti le mille differenze fatte di tante stratificazioni accumulati in millenni di storia.

   Molti pareri su questo possibile sbocco positivo delle aspirazioni europeiste sono ancora venati di pessimismo. Michel Foucault, in un’intervista dell’82, ha affermato: “Il fatto che l’Occidente viva la propria storia come se la divisione dell’Europa fosse una realtà assolutamente definitiva (definitiva come la scomparsa di Atlantide) non può che accentuare la nostra angoscia”.

   Secondo il mio giudizio, avvalorato dagli avvenimenti eccezionali del 1989 che hanno visto il crollo del muro di Berlino e la rinascita della democrazia nell’Europa Orientale sulla scia della perestrojka e sulla spinta di grandi movimenti popolari, la grande energia dell’Europa non s’è spenta.

    Essa ha perso piuttosto buona parte del rapporto stabile con le sue onde di lunga durata. Rapporto che deve assolutamente recuperare creando così le condizioni per un rilancio della cultura dei valori, della centralità dell’essere rispetto all’avere.

    L’Europa deve innanzitutto valorizzare le sue espressioni di unità.

    Una prima ampia espressione di unità è sul piano più alto della cultura, del gusto e dello spirito. Ogni forma artistica (pittura, scultura, architettura, musica) ha difatti sempre superato i confini del singolo Stato. Anche nel campo del pensiero l’Europa ha conosciuto in ogni epoca un filone filosofico dominante, sebbene affiancato da altri in un clima pluralistico.

    Nelle scienze esatte ogni scoperta o invenzione è stata il frutto di un’elaborazione collettiva, dalla fisica alla medicina, dalla biologia alla chimica. Nelle scienze umanistiche i movimenti si sono sempre sviluppati come diffusione di una corrente nazionale nelle altre realtà territoriali del continente.

    Il fronte più frastagliato risulta quello della letteratura, ma è logico dato che la letteratura è direttamente legata a sentimenti, costumi, ambienti, credenze e culture strettamente connesse alle esperienze personali degli autori.

    Essi riflettono in genere nelle loro opere il background ambientale e culturale nel quale si sono formati ed hanno vissuto.

   Quanto all’economia, sin dal tardo Medioevo essa ha costituito una concreta forma di unità, egemonizzata volta per volta da una città – mondo. Dopo essere stato per alcuni secoli a Venezia, il centro di gravità si spostò verso l’Atlantico alla fine del’500, prima a Lisbona e poi a Siviglia, quindi ad Anversa per passare ad Amsterdam sino agli inizi del ‘700 ed infine a Londra dal ‘700 al 1939.

 

   Dove l’Europa delle unità ha più stentato a trovare la via e ad incamminarsi verso il processo di unificazione che tutti riconoscono come indifferibile e già in colpevole ritardo è nel versante della politica. E’ proprio su questo nodo intricato che l’Europa ha sempre scontato la debolezza intrinseca nella sua grande espansione nel mondo.

    La conquista è stata opera soprattutto degli Stati nazionali, che hanno accumulato così depositi colmi di orgogli nazionalisti difficili da contenere e far cooperare la grandeur della Francia, l’enfasi dell’Impero in Gran Bretagna, l’esaltazione dell’efficienza industriale e militare della Germania, l’orgoglio della creatività e fantasia del “made in Italy”, la laboriosità ingegnosa degli olandesi, la precisione e l’abilità finanziaria degli svizzeri e via dicendo.

   Certo, questi connotati nazionalisti non sono stati superati dalle dispute interminabili sui prezzi, sulle integrazioni, sui prodotti da proteggere, insomma sulle aride cifre che hanno contraddistinto i lavori della Commissione della Comunità ed i vertici tra i ministri della Comunità almeno sino ai primi effetti della gestione di Jacques Delors ( nel quadriennio 1985/88, confermato alla presidenza della commissione per il quadriennio 1989/92): l’entrata in vigore, il 1° luglio 1987, dell’Atto Unico Europeo, strumento giuridico essenziale per arrivare all’unione politica dei popoli europei ed allo sviluppo comune dopo secoli di evoluzione separata.

   Alla guida di Delors è stata affidata poi la gestione della difficile fase che è sfociata nel Mercato Unico a partire dal 1° gennaio 1993. 

Tuttavia anche il Mercato Unico – sebbene costituisca un decisivo passo in avanti ed uno stimolo per la leadership politiche ed economiche di ogni singolo Paese ad attrezzarsi meglio in vista della nuova realtà da fronteggiare – non può essere sufficiente a definire uno “spirito europeo”.

   Come ha giustamente rilevato Fernand Braudel nel suo saggio Il mondo attuale

“vuol dire conoscer male gli uomini, offrir loro, come nutrimento, quelle sagge addizioni che fanno una figura così magra in confronto all’ entusiasmo, alla follia non priva di saggezza che agitarono l’ Europa in tempi remoti e recenti. Una coscienza europea collettiva non si costruisce soltanto con le cifre. Essa può anzi sfuggire loro, oltrepassarle per le vie imprevedibili”.

 Non ci si preoccupa né di una mistica, né di un’ideologia, né delle acque solo apparentemente placate della Rivoluzione o del socialismo, né di quelle vivaci della fede religiosa.

 Queste osservazioni del grande storico francese sono state riprese anche dal presidente della Commissione delle Comunità Europee Jacques Delors nella Dichiarazione sugli Orientamenti della Commissione pronunciata al Parlamento Europeo di Strasburgo nel gennaio dell’89. In quell’occasione il leader politico, cui va il merito di aver premuto l’acceleratore del processo d’unificazione segnando una svolta della commissione, ha ricordato “le tre sfide di grande portata” che l’Europa deve affrontare:

  • innanzitutto il metodo, dimostrando che “si può agire in dodici e non semplicemente segnare il passo e vivere alla giornata”;

  • in secondo luogo l’influenza dell’Europa, testimoniando concretamente che la Comunità “parla ad una sola voce e che essa è un organismo d’azione e non semplicemente un dato della storia contemporanea”;

  • la sfida della civiltà poiché, “per quanto indispensabili siano i nostri successi in campo economico, non basterà realizzare un grande mercato senza frontiere, né – come l’Atto unico comporta – lo spazio economico e sociale comune. Spetta a noi… dare più sostanza a questa Comunità e, perché no, un supplemento d’anima”.

  Un supplemento più che mai necessario in quanto “non ci si innamora di un grande mercato”.

   Il supplemento d’anima l’Europa lo potrà ritrovare soltanto facendo ricorso all’apporto delle forze che l’hanno edificata nelle sue variegate forme, all’indispensabile contributo dei suoi vari umanesimi.

  Perciò occorre prima di tutto recuperare il filo interrotto delle onde di lunga durata: il Cristianesimo per chi considera primario il ruolo della fede; la cultura laica di derivazione ellenica e latina per chi ritiene più importante il primato della ragione.

  Accanto alle onde lunghe l’Europa non può trascurare le onde brevi delle culture minoritarie, che rappresentano particolarismi vivaci ed autonomie preziose da valorizzare come supporti qualificanti di un universo  culturale europeo che è composto di tante genti diverse e rispettose delle loro reciproche identità.

  In sostanza, si tratta di rilanciare un’utopia e di ricreare quell’armonia che gli antichi ellenici – i quali non costituirono mai un unico Stato ma furono uniti  dall’affinità culturale nella diversità delle singole città-stato – seppero dare all’uomo europeo. Senza rimpianti sterili del passato, ma operando per ritrovare un nuovo umanesimo. Rilanciando la prospettiva federalista come l’unica in grado di rispettare il dato che ha caratterizzato la storia del nostro continente: la ricchezza delle diversità.

 Unità nel rispetto delle diversità, nel rispetto delle autonomie nazionali, delle realtà regionali, delle nazioni etniche senza Stato. Unità che si potrà realizzare nell’incontro fra tre bandiere: quelle degli Stati nazionali e quelle delle minoranze che si ritroveranno accomunate nella bandiera degli Stati Uniti d’Europa.

 

 

 

 

 

 

 


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